Lo statalismo italiano deprime i giovani e le famiglie
- 18 settembre 2016 Notizie Rassegna Stampa
A partire dalla crisi economica, si è spesso considerato il mercato come il principale disgregatore della famiglia e del tessuto sociale e si invoca lo Stato come soluzione. Raramente si sente dire, in modo documentato, quanto lo Stato stia danneggiando la società, sin dalle sue radici: le famiglie e i giovani.
di Stefano Magni
A tentare di ribaltare questa percezione è stato ieri Stefano Parisi, nella kermesse Energia per l’Italia, che mira a rinnovare culturalmente la frammentata area del centrodestra italiano. L’ex candidato sindaco di Milano, lo spiega quando illustra il suo modello di “liberalismo popolare”, che mira a ribaltare il rapporto fra Stato e cittadini: oggi lo Stato è invasivo, perché non ha fiducia nella società, presume la colpa dei suoi cittadini. Il liberalismo popolare intende ridare fiducia ai cittadini e riportare lo Stato al suo ruolo sussidiario. “Il tessuto comunitario, fra cui le famiglie, va valorizzato: è il vero welfare – dice Parisi – E’ invece il nostro Stato assistenziale che spinge all’egoismo”.
Numeri alla mano, uno dei relatori della kermesse, Nicolò Boggian, direttore generale del Forum della Meritocrazia, dimostra quanto lo Stato italiano sta facendo avvizzire le radici della nostra società. Punendo le famiglie che hanno più figli, con una fiscalità esosa e progressiva e deprimendo i giovani che cercano lavoro, con un sistema di tutele che crescono al crescere dell’età. La categoria sociale in cui la povertà assoluta è più diffusa è quella delle famiglie con più di 3 figli. Sono il 18,3% dei nuovi poveri, il gruppo più numeroso fra gli sfortunati del nuovo secolo. E, nel mondo dei lavoratori, sono soprattutto i giovani talenti che emigrano all’estero. Lo Stato italiano punisce chi cresce, in tutti i sensi.
“La situazione del welfare per la famiglia, sia pubblico che privato – spiega Boggian a La Nuova Bussola Quotidiana – varia a seconda delle aree. Nel Nord Italia, in una città come Milano abbiamo tanti asili nido e servizi all’infanzia. Ci sono anche differenze fra un’assistenza pubblica, migliorabile ed una privata, che si può espandere. Avendo una forte offerta pubblica non ben organizzata, questa soffoca anche la crescita dei servizi privati. E poi c’è un problema di tasse e di tasse e trasferimenti: ad oggi la maternità è molto più facile per chi lavora come dipendente, che non per chi è un autonomo o un imprenditore. L’Inps gestisce la maternità e mostra tutti i limiti di un’amministrazione pubblica: fare una domanda non è semplice, non c’è trasparenza, è difficilmente programmabile il beneficio che si può avere. Lo Stato, insomma, è più di ostacolo che di aiuto per i giovani che vogliono costituire una famiglia. E questo si innesta in un sistema intero che penalizza i giovani”.
Prima di tutto nel mondo del lavoro, nonostante le riforme del governo Renzi. “Il Jobs Act – ci spiega Boggian – è stato un buon compromesso, fra 20 anni avremo un mercato del lavoro più flessibile. Ma si applica solo ai nuovi assunti, non ai vecchi, quindi si ricrea la divisione netta fra coloro che sono già dentro al mondo del lavoro e chi cerca di entrare. Il governo ha speso molte risorse per incentivare la firma di contratti a tempo indeterminato, ma, in questo modo, il tasso di assunzione dei giovani si è addirittura ridotto, al crescere di quello degli ultra-cinquantenni. Il lavoro del futuro è molto più autonomo, flessibile e permette di conciliare meglio la vita personale e familiare, quindi è anche nella natura delle cose che, in prospettiva, vi saranno meno giovani assunti a tempo indeterminato, ma siamo ancora in una zona grigia, manca uno statuto del lavoro autonomo. E’ anche una questione di priorità: se prima il governo pensa di stabilizzare i contratti a tempo indeterminato e solo successivamente pensa al lavoro autonomo, vuol dire che i giovani non sono la sua priorità”.
Causa di depressione dei nuovi lavoratori è proprio l’assenza di meritocrazia. Il Forum diretto da Nicolò Boggian la misura. ha elaborato un “meritometro”, in cui l’Italia risulta fanalino di coda dell’Europa. “La meritocrazia si misura nell’unico modo possibile: intervistando chi lavora nelle aziende”. Da questa statistica sulla meritocrazia percepita, risulta che nel pubblico il merito non è premiato, ma nel privato le cose “non vanno molto meglio”. “Le aziende private hanno poca voglia di chiedere ai loro dipendenti cosa ne pensino. Quando queste indagini vengono svolte da un osservatore esterno, le parti tendono a chiudersi ciascuna nelle proprie posizioni: il lavoratore si dice sfruttato dal datore di lavoro e viceversa. Un po’ meglio funziona nelle piccole-medie imprese e nelle multinazionali, le prime perché sono più meritocratiche nei loro rapporti interni rispetto alle grandi organizzazioni, le seconde perché hanno dei processi organizzativi molto più chiari”.
In questo contesto, l’Italia è uno dei paesi europei con il tasso di natalità più bassi, anche e soprattutto perché: “I giovani sono sfiduciati, sono preoccupati di non avere opportunità, hanno di fronte pochi esempi positivi di successo, frequentano una scuola che non esalta le loro potenzialità e non li prepara ad applicarle nel mondo dell’impresa. Mancano, insomma, gli ‘strumenti’ principali per costruire una famiglia”. La generazione precedente, quella degli attuali nonni, si è formata negli anni del boom economico ed era sicura di avere lavoro e poi pensione. Ma questo perché: “La generazione che ci ha preceduto è formata da persone che sono partite dal nulla. Persone che sanno cosa voglia dire: avere le spalle al muro. Si sono impegnate al massimo per migliorare. Adesso, quella condizione è un ricordo sempre più lontano, si sono guadagnati una posizione e non sentono la necessità di fare altro. Ai giovani hanno dato tanto, ma forse non l’unica cosa veramente importante: la determinazione. Hanno dato loro le radici, ma non le ali”.