Corriere Imprese – Atenei con il ranking
- 10 agosto 2015 Notizie Rassegna Stampa
Roger Abravanel – Il teorico della meritocrazia (nel pubblico e nel privato) lancia il progetto di una vera graduatoria di valore degli atenei.
E punta il dito contro il modello familiare dell’impresa nordestina
di Francesco Chiamulera
Suona la campanella. Ma suona per tutti: non solo studenti superiori e universitari, anche giovani in cerca di lavoro, disoccupati, lavoratori dipendenti, imprenditori, operai, nuovi professionisti.
La ricreazione, avverte Roger Abravanel, teorico italiano della meritocrazia, è finita. Lo fa nel suo nuovo saggio edito da Rizzoli ma il ragionamento di Abravanel, che ha avuto il merito di mettere per la prima volta nero su bianco l’urgenza tutta italiana per una nuova etica del merito, va al di là di «scegliere la scuola, trovare il lavoro», come recita la copertina del libro. E’ un problema universale.
Roger Abravanel, nel suo libro spiega che il mondo del lavoro, oggi, chiede ai neolaureati soprattutto le cosiddette soft skills. Ovvero?
«In italiano si tradurrebbe con “competenze morbide”: per esempio la capacità di interagire con gli altri o quella di saper prendere decisioni. In Italia ci sono alcune università che insegnano bene a risolvere i problemi, ma i risultati medi complessivi sono spaventosi. L’OCSE mostra che i laureati italiani vanno peggio nel problem solving dei diplomati alla maturità coreani e olandesi! Poi, anche le migliori università italiane, come il Politecnico o la Bocconi, per stessa ammissione dei rettori insegnano ancora troppo poco a lavorare in gruppo o ad interagire con le imprese».
Ha definito l’università italiana «un labirinto»: può spiegare questo giudizio?
«La cosa che più mi ha divertito è che il libro dedica sì e no venti pagine all’università e però è da lì che piovono sempre le critiche più feroci. Il problema è molto semplice: in Italia abbiamo delle buone università, ma purtroppo sono abbastanza poche. Ed è un labirinto, perché ci si perde: da noi si arriva alla laurea magistrale mediamente in 7 anni, ma essendoci pochi laureati triennali che entrano nel mercato del lavoro, il confronto con l’estero fa sì che siamo molto indietro quanto a giovani già inseriti nelle professioni».
Infine, c’è l’inflazione del voto.
«Una spaventosa perdita di valore. In Italia il 107 spesso non è sufficiente. Quello che servirebbe si chiama ranking relativo: dire, ad esempio, in questa università c’è un top 2%, un top 15%, e così via. Ma in Italia questo non si accetta.
Lei ha criticato anche le modalità di orientamento alla selezione.
«Certo. Prendiamo Almalaurea, l’ente che pubblica in continuazione rapporti su questo tema. Se uno va a vedere cosa c’è scritto in fondo a quei rapporti, troverà una riga minuscola, quasi invisibile, dal titolo “risultati occupazionali”: un’informazione importantissima, ma Almalaurea non la pubblicizza, è un consorzio tra università italiane e se appare che una funziona meglio dell’altra, essa non riceve più finanziamenti. In altre parole, si è costituita un’alleanza antitrasparenza sulla performance didattica delle università. Allora ho preso una decisione: aiutare a creare il primo ranking serio dell’università italiana. Abbiamo delle idee, vorremmo coinvolgere un grande quotidiano italiano e delle università prestigiose. E’ un progetto appena nato, ma sappiamo esattamente come farlo».
Parliamo spesso di meritocrazia nelle istituzioni. E nel privato? Il figlio dell’imprenditore del Nordest che eredita un’azienda dal padre: come lo valuta ?
«Parlerei piuttosto del figlio dell’imprenditore che va a lavorare nell’azienda di famiglia. Il modello Nordest è basato sull’impresa piccola che non cresce e dove fondamentalmente conta la famiglia, prima che l’azienda. Molti, troppi giovani veneti si laureano sapendo già che andranno a lavorare nell’impresa dei genitori. Tutto questo ha delle implicazioni estremamente negative sul sociale e sull’economia: imprenditori che non fanno crescere l’azienda ma si preoccupano più di tramandarla alla famiglia. E non fanno crescere l’economia. Entrare in azienda solo perché si è parenti o figli del proprietario è l’esatto contrario della meritocrazia. In altre parole, siamo rimasti al secolo scorso: i figli di imprenditori fanno gli imprenditori, i figli di operai fanno gli operai».
Il Nordest che conseguenze ne ha?
«Ne soffre. Lo mostrano tutti i dati economici. Pensiamo ai simboli del Nordest: 10 anni fa c’era solo Benetton, oggi Zara fa un utile che è più del fatturato dell’azienda trevigiana. Poi c’è il problema della disuguaglianza: in Italia e nel Nordest c’è da sempre, ma soprattutto non c’è mobilità sociale. La scuola ne è la vittima, ma ne è anche il carnefice. Perché non seleziona i più bravi».
Nel suo libro racconta anche storie positive: un giovane ragazzo che lavora in Luxottica e che si è ribellato a questo destino
«E’ un problema epocale. Abbiamo pochi laureati. In Veneto ci sono tanti ragazzi capaci: bisognerebbe scegliere i più bravi, farli lavorare e mandarli in realtà aziendali che li facciano crescere. Solo così il modello del Veneto può ripartire».