L’impresa – Premiare lo sbaglio è vincente

È il momento di passare dal nostro capitalismo di stato a un capitalismo imprenditoriale. Solo con una cultura che premia e non castiga l’errore si favorisce la propensione al rischio calcolato e, quindi, all’innovazione
di Antonio Dini

Datevi il permesso di fallire. Veramente. Prendete dei rischi: cercate di innovare, di cambiare le cose, di andare più in là. Fatelo con onestà, con coraggio e con passione. Male che vada, non ci riuscirete. Tuttavia, dovete potervi concedere il lusso di fallire: è più importante dei vostri bonus e delle vostre carriere. Senza la sconfitta non è possibile la vittoria. Senza sbagli non s’impara. Sembra di ascoltare qualche guru d’accatto, qualche venditore di olio di serpente nel Far West del business. Perché la trama della nostra società su questi temi è tessuta stretta, attillata, potremmo dire soffocante. «Invece – dice a “L’Impresa” Claudio Ceper, presidente del Forum della Meritocrazia e consigliere responsabile del career advising per l’Università Bocconi – è uno dei cardini del decalogo del Forum, volto alla diffusione di una cultura meritocratica nella nostra società: non avere paura dei fallimenti, anzi trarre il massimo di insegnamento da essi».
 

Come imparare a camminare

Esistono in Italia persone che vivono con passione questa filosofia, questo approccio in cui l’attitudine è a un risk-taking non avventato, ma determinato? Luigi Zoia, classe 1948, imprenditore per una vita in Italia e negli Stati Uniti, ne ha fatto la sua filosofia di vita. La sua autobiografia, pubblicata nel 2013, è incentrata proprio su questo tema, a partire dal titolo, Cadere sette volte… per rialzarsi otto (Armenia editore). «Il fallimento nella vita – dice Zoia – è fondamentale per imparare e crescere. Fin da bambini nel processo di imparare a camminare, affrontiamo i nostri primi fallimenti, cadendo. La domanda chiave è: ci demoralizziamo? Veniamo puniti? Oppure siamo incoraggiati a continuare? Il bambino interpreta la caduta come un momentaneo e fastidioso incidente di percorso da superare subito. Tant’è che continua a cadere fino a che non impara a trovare il proprio equilibrio e riesce a camminare. Se però applicassimo la cultura e le leggi italiane sul fallimento ai bambini avremmo un popolo che non saprebbe camminare, e vivrebbe tutta la sua vita dipendendo dagli altri, perché marchiati come falliti dall’età di sei mesi sarebbero condannati a restare seduti». Il tema è quello del fallimento, letterale o figurato. Non la bancarotta fraudolenta, non la pigrizia o l’incompetenza che fanno deragliare i progetti meglio programmati. No, il fallimento inteso come risultato certo, non desiderato, ma pur sempre possibile del desiderio di innovare, di trovare strade alternative.
Spiega Ceper: «Il Ceo di General Electric,Jeff Immelt, aveva istituito i Failure Awards, che ogni anno premiavano i maggiori fallimenti interni all’azienda. Quelli che non fossero evidentemente generati da malafede o scarsa applicazione, ma che nascevano dal coraggio di fare esperimenti perché, diceva Immelt, è da questi fallimenti che nascono i grandi breaktrough che ci fanno fare un salto di qualità unico. Però, dico io, se non incoraggi la tua gente a mettere fuori la testa dal guscio, se non crei una cultura con possibilità di errore, questo non succede: nessuno prova a cambiare lo status quo, nessuno innova».
 

La responsabilità della politica

Dal punto di vista culturale le cose sono molto diverse. In parte perché l’Italia è un paese particolare: ha una cultura avversa al rischio ma, al tempo stesso, conta più imprenditori che dirigenti d’azienda. E per di più questi ultimi, che dovrebbero essere comandanti delle loro navi e delle loro flotte, si nascondono più spesso che mai dietro le sicurezze di una società blindata, con scarsa propensione alla mobilità sociale. Giocano in difesa, fanno catenaccio. Il fallimento non è un’opzione. Eppure «Se oggi l’Italia – scriveva lo storico britannico Denis Mack Smith nella sua monumentale “Storia d’Italia dal 1861 al 1997” – è un paese più sano e florido del 1861, ciò si deve soprattutto alle qualità di flessibilitàe intraprendenza dei suoi cittadini».
Se però, scrive ancora Denis Mack Smith, i problemi aperti sono tutt’ora numerosi, ciò è dovuto in gran parte al sistema elettorale che a lungo non è riuscito a produrre governi basati su una solida maggioranza parlamentare e alla mancanza di controlli e contrappesi necessari al corretto ed efficiente funzionamento del sistema.
Ma anche la debolezza dell’opposizione, continua Denis Mack Smith, e la permanenza dello stesso partito al governo dal 1946 al 1992, «Hanno permesso lo sviluppo della corruzione, una stravagante politica di spesa che ha prodotto un enorme debito pubblico e la mancanza di un freno alla crescita della mafia, della camorra e della ’ndrangheta».
 

Il giudizio morale che pesa

In questo contesto, che spazio ha la capacità imprenditoriale e la propensione al rischio degli imprenditori e dei dirigenti? «Nella nostra cultura – dice Luigi Zoia – il fallimento ha una forte carica di giudizio morale negativo che vuole marchiare a sangue l’identità della persona, mentre dovrebbe essere solo usato per descrivere i risultati di una azione senza alcun elemento di giudizio. Invecela persona viene giudicata negativamente, messa alla gogna, e chi vienemarchiato come “fallito” non può più essere attivo per parecchi anni.
Qui in Italia la cappa della moralità ti marchia a vita nella tua identità e diventa un’onta vergognosa. Non è una sorpresa che, di fronte a tale sofferenza interna, a volte il suicidio sia visto da molti come unica via di uscita. Nella cultura americana, se non hai rubato, chiedi il procedimento di protezione che ti permette di riorganizzarti. Non sei condannato moralmente ma aiutato». La differenza è con gli Stati Uniti e con gli altri paesi soprattutto nord-europei, figli di una mentalità diversa. Spiega Claudio Ceper: «Nel mondo anglosassone il fallimento, ma certo non la bancarotta fraudolenta, non taglia fuori una persona ma è la dimostrazione che chi l’ha fatto ha imparato qualcosa, è una persona migliore di prima. Si dice: “Prima sbagli e meglio è”, perché lo sbaglio da giovani è meno grave e l’esperienza fatta dura più a lungo. 
Se sbagli a 55 anni rischi, magari, di creare conseguenze catastrofiche e non recuperare più. Invece, la condizione nei paesi mediterranei come l’Italia è completamente diversa. Per fatti di cultura e di approccio religioso – perché anche questo incide –, il fallimento è accostato a un peccato mortale. Puoi solo pentirti, ma non puoi trarre esperienza per migliorarti. 
Se da noi fallisci o comunque sbagli, difficilmente vieni perdonato».
 

La “prudenza” non premia più

Finora è andato tutto bene, nel senso che il “sistema prudente” è bastato a se stesso e non ci sarebbe stato bisogno di parlare di altro. Purtroppo (o per fortuna) le cose stanno cambiando. Internet, la globalizzazione, il cambio radicale di paradigma delle società occidentali, sta rimettendo in discussione i fondamenti stessi del nostro modo di pensare. Gli esempi riempiono giornali, libri e riviste. Poche volte però si parla della possibile reazione. Spiega Zoia: «Oggi con la globalizzazione e la fine del modello di società chiusa e statica, di fronte all’accelerazione del cambiamento sistematico di tutti gli aspetti della nostra società, sarebbe consigliabile passare dal nostro capitalismo di stato a un capitalismo imprenditoriale. Sarebbe meglio trasformarci sempre più tutti in imprenditori.
Perché c’è bisogno di meno burocrazia e di poche regole, semplici. 
Perché la creatività nasce dall’individuo libero e non dai comitati burocratici delle amministrazioni statali».
Il piano di lettura è duplice. Da un lato il superamento del cambiamento sistemico che ingolfa e rallenta il paese, dall’altro il cambiamento della mentalità degli imprenditori e dei manager e non solo. «Affrontare il cambiamento – dice Zoia – vuol dire affrontare l’ignoto, il diverso, dove le soluzioni del passato non funzionano più. Le vecchie regole sono obsolete e inutili. Allora occorre essere creativi e procedere per tentativi nella ricerca di nuove soluzioni e nuove regole. Ogni errore e ogni fallimento diventa una lezione nuova su cui si costruisce una strada sicura. Per questo è importante darsi il permesso di sbagliare». Detto in altri termini da Claudio Ceper: «Il fallimento in senso buono è legato al coraggio: è difficile che qualcuno che sta sempre coperto, che non si espone, che segue solo la strada vecchia, sbagli. È più facile invece che sbagli chi batte strade nuove e più rischiose. Ma se la cosa funziona, se la strada nuova porta in un posto migliore, il vantaggio per te e per la collettività è infinitamente maggiore».
 

Più imprenditorialità per tutti

È un dilemma storico, infinito, con il quale si sono confrontate generazioni di donne e uomini. Eppure, ricorda Zoia, le imprese e le amministrazioni statali hanno bisogno di scoprire questa imprenditorialità e creatività a tutti i livelli, dal commesso al manager: «Tutti i cittadini devono imparare ad agire in modo creativo, flessibile e con un maggior grado di responsabilizzazione e indipendenza per contribuire a raggiungere gli obiettivi delle imprese, delle comunità, del paese. Questosi può fare solo con una cultura che premia e non castiga l’errore». La conseguenza è semplice e terribile, un monito che molti conoscono e hanno sentito sulle proprie spalle: «L’alternativa è affrontare il mare del cambiamento agganciati ai salvagenti della vecchia cultura intrisa di una pesante morale perbenista ottocentesca che, come massi, trascina tutto verso il fondo». Superata la paura di fallire, però (e la parola chiave in realtà è “paura”, che blocca la mente delle persone), si possono raggiungere e accendere energie insospettabili. Basta solo capire una cosa: che sbagliando s’impara.

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