Corriere.it – Bene il jobs act, ma su scuola giustizia e sud siamo indietro
- 05 febbraio 2016 Notizie Rassegna Stampa
Riflessioni di Roger Abravanel Presidente Onorario del Forum della Meritocrazia
A fine dicembre, Matteo Renzi ha twittato il suo «bilancio del 2015» ed è stato immediatamente criticato dalle opposizioni e da molti economisti . Queste critiche sembrano poco giustificate, se si esamina l’operato del premier nei primi due anni della sua leadership nel governo del Paese. Chiariamo subito che la performance di breve periodo sembra molto buona. Il Pil 2015 sembra sia cresciuto di +0,8 %, dopo un -0,4% del 2014 e -1,7% del 2013. Non si tratta solo di un grande miglioramento per un Paese che negli ultimi 20 anni ha fatto meglio solo di Haiti (con il terremoto) e dello Zimbabwe, ma anche di un recupero del gap di crescita con i paesi con cui dovremmo misurarci: in due anni il tasso di crescita è migliorato di +2,5 percento contro +0,5% della Francia e +1% della Germania. Con buona pace di coloro che dicono che è tutto merito dell’euro debole e del petrolio a buon mercato. Questa performance di crescita del Pil si è tradotta in 300 mila nuovi posti di lavoro che però in realtà sono circa 450 mila,perché si è anche ridotto l’utilizzo della cassa integrazione. Come si sono ottenuti questi risultati? Sicuramente grazie a una grande riduzione delle tasse pari a quasi 20 miliardi di euro sul biennio 2014 – 2015, prima grazie agli 80 euro e poi con la riduzione dell’Irap e dei contributi sul lavoro dipendente del Jobs act. Difficile chiedere di più sul breve.
Ma il premier ha anche ragionato con un orizzonte più di lungo termine. La riforma del Senato non è solo un taglio dei costi della politica. Contiene anche una drastica riduzione della devolution alle regioni di poteri regolatori in materia di ambiente, infrastrutture e lavoro a che negli ultimi 20 anni ha frenato l’economia. Se la riforma sarà approvata dovrà essere declinata in una nuova architettura regolatoria complessa che dovrà poi confrontarsi con opposizioni molto più dure di quelle dei sindacati contro il Jobs act.
Anche lo stile di leadership del premier di questi due anni è stato una vera novità nel nostro panorama politico: una cultura del «fare» e non solo del «dichiarare», uno straordinario sforzo di comunicazione delle «piccole vittorie» per rilanciare la fiducia, la capacità di attrarre e rilanciare talenti come Mario Barbuto, Yoram Gutgeld, Rossella Orlandi. Tutto bene? Non proprio. Se il tweet di fine anno riflette la realtà di alcuni importanti successi, esagera il merito di altre riforme.
In primis la «buona scuola». Gli italiani non ne hanno un’opinione molto positiva e lo hanno dichiarato in un sondaggio pubblicato a settembre 2015 su questo quotidiano. Hanno ragione perché la riforma si è preoccupata più degli insegnanti precari che di migliorare la qualità dell’insegnamento ai «clienti» della scuola, gli studenti. L’idea di fare nascere la tanto anelata meritocrazia nella scuola con una «autovalutazione» senza riscontri esterni, non è ritenuta efficace da nessuno eccetto che dagli stessi insegnanti (e neanche da tutti).
Il tweet di fine anno del premier descrive anche la riduzione del numero di nuove cause del 10 -15 % come un successo della riforma della giustizia civile. Ma se non si affronta il problema del mastodontico arretrato agendo sulla meritocrazia dei tribunali italiani, non si risolverà un problema essenziale per il rilancio della nostra economia.
Gli stessi dubbi esistono sulla riforma della PA, che a parte il licenziamento di 100 «fannulloni» sembra lontana dal garantire una vera meritocrazia per la classe dirigente, che è il presupposto per qualunque risultato un po’ serio. E se la spending review sembra avviata molto meglio di tutte quelle avviate dai governi precedenti, non è accompagnata da più chiarezza e trasparenza sui costi dello Stato. E molte delle liberalizzazioni–regolazioni nei servizi privati (assicurazioni, farmacie, distribuzione ecc… ) sono ancora al palo per la opposizione delle solite lobby.
La sensazione è il premier non abbia voluto affrontare il problema di petto. L’altra preoccupazione è che abbia raggiunto i limiti delle politiche che riesce a impostare a Palazzo Chigi da solo e con le persone di cui si fida o con brillanti consulenti esterni, senza una squadra di governo di grande livello.
È possibile che Matteo Renzi possa continuare ancora per un po’ così: nei prossimi tre anni le tasse scenderanno di ulteriori 30-35 miliardi e se così fosse le imprese italiane, soprattutto quelle manufatturiere, saranno tra quelle che pagheranno meno tasse e forse ricominceranno a investire. Per questo, nel 2016 l’Italia è prevista crescere poco meno della Germania.
Ma per diventare la «locomotiva d’Europa» è anche fondamentale che aumenti la produttività a medio termine della nostra economia di servizi — ambiente — trattamento rifiuti, acqua, turismo al sud, commercio, banche, assicurazioni, trasporti locali, magari attraendo quegli investimenti dall’estero che stentano a decollare. E sarà l’economia di servizi del Sud a doverne beneficiare maggiormente, altrimenti continuerà l’«Italia a due velocità». La riforma del Senato crea, un po’ in sordina, le premesse per farlo, e deve essere ancora approvata ed attuata, ma senza le altre riforme di cui sopra non succederà granché, soprattutto al Sud. Senza legalità e con risultati ai test Pisa a livello della Bulgaria, il Sud non decollerà.
Il rischio è che, col tempo, i tweet di un premier che avuto un grande successo nei primi due anni del suo mandato, diventeranno sempre più populisti come quello del «bonus cultura» per i giovani.