Nomine: luci ed ombre

Riflessioni di Roger Abravanel Presidente Onorario del Forum della Meritocrazia

Non sono poi andate così male le nomine dei vertici del settore pubblico al termine delle quali sono stati nominati validi amministratori delegati (AD) in aziende come ENEL ed ENI. C’è stata, è vero, la sorpresa di trovare un bravo banchiere come Alessandro Profumo al vertice di una azienda tecnologica (Leonardo) e soprattutto la non riconferma di Francesco Caio alle Poste, pur in presenza di ottimi risultati. Ma è abbastanza chiaro che alle Poste, dove lo stato è ancora in maggioranza assoluta, le antiche logiche della politica hanno avuto una volta di più il sopravvento.

Sono passate invece inosservate le nomine degli altri membri del consiglio di amministrazione (CDA). Probabilmente non interessano neanche a chi li ha proposti, dato che abbondano i professionisti e gli accademici, invece che persone con esperienza aziendale, come avviene nei migliori CDA.

Questa pratica di ricercare consiglieri che non abbiano nulla a che fare con la gestione, non riguarda solo le aziende (ex) pubbliche, ma anche molte imprese private ed è emblematica della poca importanza dei CDA in Italia, i cui membri vengono infatti retribuiti meno che in altri paesi. Eppure chi scrive, che da anni siede in CDA di aziende internazionali, sa quanto sia importante tutto il consiglio, avendo vissuto in prima persona i benefici di consigli ben funzionanti e i danni fatti da quelli meno validi.

Qualche passo avanti anche da noi è stato fatto grazie a un grande sforzo di compliance (rispetto delle norme delle società quotate) soprattutto per proteggere gli interessi degli azionisti di minoranza. I consiglieri delle “liste di minoranza” (proposti non dall’azionista di riferimento, alcuni anche in base alle “quote rosa”), hanno vegliato che non si ripetessero le porcherie e gli abusi degli anni passati (scuderie dei parenti spesati dai bilanci aziendali, conflitti di interesse mostruosi).

Ma non basta più. Si tratta di approvare acquisizioni da miliardi di euro, prepararsi alla sfida digitale, valorizzare al massimo il capitale umano. E queste scelte non sono state granché nei Cda italiani, se oggi abbiamo poche aziende Italiane tra le grandi globali, le banche italiane sono le meno profittevoli d’Europa e le nostre aziende sono terra di conquista da parte delle multinazionali (e raramente avviene il contrario).

La differenza con le migliori pratiche estere è chiara. Da noi l’AD viene scelto assieme agli altri consiglieri in una “lista” preparata dall’ azionista di riferimento, all’estero è tutto il consiglio che lo sceglie. E poi lo aiuta, consiglia, valuta e ne pianifica la successione. Per farlo, ci vogliono però consiglieri che capiscano di business. Ma chi li sceglie? all’estero sono gli stessi CDA ad avere molta voce in capitolo sulla propria composizione. Per esempio, il comitato nomine cerca di capire se un candidato da riconfermare contribuisce attivamente alle riunioni (lasciando però il proprio ego fuori dalla porta), dice quello che pensa, si documenta, lavora bene in team. Poi lo propone a tutto il CDA, con un processo attivamente orchestrato dal Presidente, che è il vero leader del consiglio. Da noi il presidente è spesso solo una figura di rappresentanza perché  così lo vogliono  gli azionisti di riferimento –“inodore , incolore, insapore” è stato definito da un suo consigliere il Presidente di una grande società quotata.

Che si può  fare? Poco nel caso di un azionista di riferimento che ha ancora la maggioranza della azienda. Se  vuole liberarsi di un AD capace perché non più troppo devoto (o nominarne uno poco capace, ma a lui fedele), oppure fare una fusione che c’entra poco con il business della propria azienda, solo per i propri interessi personali, i consiglieri della “lista” di solito stanno zitti e quelli “indipendenti ” anche – le dimissioni nei  CDA italiani sono rari. Così, agli azionisti resta solo la possibilità di non comprare le azioni.

Ma qualcosa si dovrebbe poter fare dove gli azionisti di riferimento (fondazioni bancarie, imprenditori, Tesoro) non hanno più la maggioranza, come accade in molte ex aziende pubbliche, banche, assicurazioni e qualche grande impresa industriale. Oggi l’azionista di riferimento controlla il CDA grazie alla lista di maggioranza, perché, avendo la maggioranza relativa, nessun azionista riesce a contrastarlo né in assemblea né nel CDA. Ma all’estero il mercato non lo consente: un’azienda nel cui CDA siedo da anni, ha fatto acquisizioni che il mercato non ha apprezzato spingendo il CDA a licenziare l ‘AD, cambiare il Presidente e modificare la composizione stessa  del CDA.

Come si possono allora rafforzare i CDA italiani?

Un primo passo potrebbe essere un’ipotesi di lavoro di Assonime (la associazione delle società quotate) che suggerisce la “lista del CDA “, quando lo statuto lo consente. La  proposta di nomina dell’AD non sarebbe più da parte dell’azionista di riferimento, ma del CDA uscente. 

Chi scrive ritiene che questo potrebbe essere un ottimo punto di arrivo, ma oggi troppi CDA sono pieni di consiglieri con il profilo sbagliato o senza la giusta autorevolezza e indipendenza e comunque si proteggono l’un l’altro essendo parte della stessa lista.

Per arrivarci sono necessari alcuni nuovi ingredienti. Innanzitutto passare ai cosiddetti staggered boards ( scadenziati). In uno dei miei CDA i consiglieri non scadono tutti assieme, ma tre alla volta. Questo , oltre  a responsabilizzare il  resto del board a  valutare bene i candidati in sostituzione, ” romperebbe” la solidarietà della lista grazie a nuove ” voci fuori dal coro”.

Sempre per “spezzare la lista” si potrebbe poi fare votare in assemblea i singoli consiglieri. Ho testimoniato personalmente il forte segnale che si riceve quando un consigliere viene approvato con il 98 per cento dei voti e un altro con il 60.

La vera garanzia però é che da noi si verifichi una vera “riscossa dei presidenti” che devono diventare gli unici garanti nei confronti di tutti gli azionisti della eccellenza del CDA. Per questo bisogna cambiarne radicalmente i  profili e cercare dei veri leader.

È arrivato il momento di avviare un dibattito su come fare funzionare i CDA italiani. L’augurio è che tale dibattito non sia affidato solo a insigni giuristi e rappresentanti dei poteri che resistono al cambiamento, ma anche a voci nuove che capiscono veramente cosa vuole dire governare una azienda.

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