La governance che fa la differenza
- 03 ottobre 2016 Notizie
di Paola Schwizer
Presidente di Nedcommunity, associazione italiana degli amministratori non esecutivi e indipendenti
È finita l’epoca dei cda a porte chiuse: non solo azionisti e investitori, ma anche regolatori e la stessa collettività si ergono ormai a giudici della buona governance e pretendendono più trasparenza e accountability. Se non sarà svolta all’interno del consiglio, la valutazione di merito resterà almeno affidata alle voci e ai comportamenti di analisti e investitori attenti, attivi e indipendenti.
È possibile portare il merito nei consigli di amministrazione? Il faro è acceso sulla qualità dei cda ormai da anni. Tuttavia, nelle poche dichiarazioni rinvenibili dai report delle società (tutte non italiane) sul tema del merito, si rileva che esso è collegato a considerazioni di diversità, rispetto delle idee e degli interessi reciproci, inclusione culturale, intolleranza verso comportamenti di esclusione, discriminazione. È evidente che non si tratta di indicatori di merito in senso stretto, quanto piuttosto di possibili ostacoli – sicuramente da abbattere – affinché prevalgano considerazioni di merito nella selezione dei consiglieri e siano favorite la coesione e la qualità delle relazioni interne all’organo. Il tutto a vantaggio della presa di buone decisioni.
Ma le valutazioni di merito dovrebbero andare ben oltre e riflettere in modo diretto le performancee del consiglio e dei singoli consiglieri. Partiamo dai compiti. Oggi, in uno scenario dai tratti assai incerti, i cda devono essere soprattutto in grado di svolgere un ruolo determinante per il successo di lungo periodo delle imprese, governando i rischi, anche emergenti, che gravano sul modello di business. Se le scelte aziendali hanno successo, il merito può essere quindi in parte attribuito al cda, oltre che al management che le ha proposte e realizzate. Ma una relazione diretta tra governance e performance, come emerge da risultati non sempre univoci delle ricerche accademiche, è difficile da dimostrare. Solo il mercato, forse, può esprire una valutazione di merito nel lungo termine.
Meglio, quindi, ragionare su indicatori intermedi di performance che riflettano in modo più immediato l’operato di un buon cda. In questa prospettiva, l’efficacia del consiglio può essere ricondotta alla qualità professionale dei songoli componenti, al loro impegno nel ruolo (rappresentabile, ad esempio, dal numero di riunioni svolte e dalla percentuale di presenza dei singoli). Se un cda svolge almeno dieci sedute in un anno e i consiglieri vi partecipano in media per oltre l’80% (ossia perdono al massimo uno o due sedute), come di fatto accade, si potrebbe concludere che il cda lavora bene. Si tratta però, anche in questo caso, di una valutazione sommaria e poco approfondita in quanto limitata ad aspetti strutturali cui potrebbero non corrispondere processi decisionali altrettanto efficaci. Valutare l’operato dei comitati consiliari, preposti ad attività istruttoria e consultiva su tematiche sensibili, può portare a estendere le considerazioni di merito a qualche profilo organizzativo. Ma la presenza stessa dei comitati potrebbe determinare uno spostamento di attenzione da temi strategici a questioni più tecniche, in assenza di una visione integrata dalle varie tematiche.
Se apprezzare il merito significa verificare che, a fronte di obiettivi predefiniti, uno o più soggetti realizzino risultati in linea o superiori alle attese, allora va detto che tale processo è spesso assente nei consigli di amministrazione, o meglio non è ancora pienamento recepito né attuato in modo sistematico. E ancora meno riguarda i singoli soggetti. Se si premiasse il merito, il turnover dei consiglieri dovrebbe aumentare poiché chi “non funziona” verrebbe sostituito. È così? o nelle stanze ovattate dei consigli si trovano sempre i soliti noti?
Eppure gli strumenti di valutazione ci sono.
Prendiamo, ad esempio, il processo di selezione dei nuovi amministratori. Una recente ricerca condotta dal Forum della Meritocrazia, in collaborazione con Deloitte, Doxa duepuntozero e Nedcommunity, rileva che quattro società su dieci hanno definito un processo formale di selezione dei consiglieri. Solo in un terzo di queste, tuttavia, si considerano tra i criteri alla base del rinnovo le precedenti performance realizzate dal candidato come amministratore e documentate nelle relazioni di autovalutazione annuali (il merito appunto), mentre per i nuovi membri prevale la ricerca di soggetti in grado di completare il set di competenze presenti in cda. Solo una sparuta minoranza si avvale, però, del supporto di professionisti per la ricerca dei candidati o per la valutazione di adeguatezza del rispettivo profilo, privilegiando ancora la cerchia delle relazioni personali del management o degli azionisti. In altri termini, non conta tanto il contributo dato dai singoli in precedenti esperienze di governance quanto il fatto che, a fronte di un cv adeguato, una volta riusciti a entrare nel giro, essi siano riusciti a mantenere buone relazioni con gli attori chiave del sistema.
Guardando allora a valle, al processo di autovalutazione annuale del consiglio – ormai una prassi nelle quotate e nelle banche -, si rileva che proprio là dove sarebbe logico procedere per obiettivi, ci si limita a verificare l’aderenza dei processi e dei comportamenti ai principi normativi (in essere per le banche, ad esempio) o di autodisciplina definiti dal Codice per le società quotate. Il cda non si pone obiettivi diretti, salvo forse quello implicito di allinearsi alle prassi e alle regole per evitare sanzioni o tutelare la propria reputazione nei confronti del mercato. L’eleganza nella forma, ovvero il rispetto verso ruoli che paiono essere legittimati a priori, spinge spesso a privilegiare giudizi generici riferiti al complesso dell’organo piuttosto che ai singoli. E forse i board si sovrastimano, se sono veri i giudizi di sostanziale adeguatezza che emergono dalle sintesi rese pubbliche nelle relazioni annuali di governance, almeno alla luce dei risultati economici di alcune società. Senza contare che il livello più alto di maturità del processo di valutazione, rappresentato dalla cosiddetta peer evaluation, ovvero la valutazione tra pari, è praticamente assente nella board review, perché condisiderano poco fair nei confronti dei consiglieri.
È finita, tuttavia, l’epoca dei cda a porte chiuse: non solo azionisti e investitori, ma anche regolatori e la stessa collettività si ergono ormai a giudici della buona governance e pretendono più trasparenza e accountability. D’altro canto, almeno per le quotate e per poche altre società virtuose, le dettagliate informazioni fornite nelle relazioni annuali sul governo societario consentono uno scrutinio più approfondito sui processi di governance e sulle attività degli organi. In definitiva, se non sarà svolta all’interno del consiglio, la valutazione di merito non resterà almeno affidata alle voci e ai comportamenti di analisi e investitori attenti, attivi e indipendenti.