In università concorrenza vuol dire meritocrazia

Qualche giorno fa Raffele Cantone ha detto che l’Anac è piena di denunce di Parentopoli universitarie e ha riaperto il dibattito sulla (anti)meritocrazia nel nostro Paese. Ha fatto particolarmente scalpore il caso da lui citato delle cattedre di Istituzioni di diritto pubblico alla facoltà di Lettere e di Storia greca a quella di Legge, entrambe appannaggio di figli di docenti, che così aggirano la legge Gelmini che proibisce di assumere figli nella stessa facoltà.

Effettivamente la norma Gelmini ci aveva provato a porre un freno al dilagare della parentopoli universitaria ma poi, come si dice, «fatta la legge, trovato l’inganno». Che in questo caso, è ancora peggio della malefatta semplice (quella di mettere il figlio in cattedra nella università di cui si è un barone), perché crea cattedre inutili, che sopravviveranno al pensionamento del beneficiato. Molti rettori e docenti universitari negano che il problema sia ancora così grave, ma purtroppo sono smentiti non tanto dai «cervelli» che emigrano, ma da quelli che non arrivano .
Parentopoli universitaria esiste e Raffaele Cantone può farci ben poco. Sergio Rizzo ci ricorda poi che non si riesce a perseguire penalmente neanche gli imbrogli più conclamati perché i reati cadono in prescrizione e i concorsi truccati restano validi. Allora, che fare? Per rispondere dobbiamo guardare oltre l’università italiana e chiederci se questo dei «figli d’arte», che spesso sono figli del nepotismo, sia un fenomeno solo universitario, solo italiano. Ovviamente no. Nella patria della meritocrazia, gli Usa, la politica ha le sue dinastie, i Kennedy, i Bush, forse in futuro i Clinton. E non si tratta di un fenomeno solo universitario, soprattutto in Italia. Nel nostro Paese gli studi professionali sono pieni di parenti. Parentopoli esiste per esempio in molti studi legali anche se assume forme un po’ diverse. Infatti , se i concorsi da avvocato non sono certamente immuni da spintarelle e segnalazioni, il successo tra gli avvocati non lo fa il concorso, è importante fare praticantato negli studi giusti, avere relazioni e contatti. E in queste cose, la famiglia conta. Succede allora che, se abbondano i casi dove il favoritismo senza pudore forma dei cattivi professionisti, commercianti, artigiani che non si meritano l’attività dei genitori, ce ne sono molti altri dove l’aiuto intelligente di un padre o di una madre può anche aiutare i figli ad avere un successo «meritato».
Purtroppo non è possibile dire a priori quando un figlio ha successo perché aiutato indebitamente e quando lo ha perché i genitori gli hanno trasmesso qualcosa di utile. Lo dirà il tempo. E allora, dato che è comprensibile (e perfettamente legale) il desiderio dei genitori di lasciare ai figli un po’ del proprio patrimonio (che è fatto da titoli di proprietà ma anche di valori, esperienza e relazioni), come si fa a capire se si tratta di sfacciato nepotismo che aggira le regole o invece di casi in cui il rampollo, per genetica, consigli e spintarelle al momento giusto, si ritrova a un certo punto davvero dotato delle qualità, dell’esperienza e delle relazioni che gli fanno meritare il posto che si ritrova? Una risposta ce la fornisce indirettamente lo stesso Rizzo richiamando «l’analogia» di Frati, ex rettore della Sapienza a Roma, che, interrogato sulla rapida carriera universitaria di uno dei suoi numerosi figli-docenti, rispose che nessuno si sognava di chiedere a Paolo Maldini di lasciare la sua squadra solo perché suo padre Cesare era diventato Ct della nazionale. Ha ragione. Ma nessuno ha mai accusato Paolo Maldini di non meritarsi i suoi successi perché li ha ottenuti, evidentemente e in mondovisione, in una accesa competizione. Una competizione vera, in cui non competeva solo lui, come in un concorso, ma la sua squadra di club, e la nazionale.
Lo sport avrà la sua corruzione, le partite truccate e il doping, ma chi gioca innazionale è, mediamente, molto ma molto più bravo di chi fa la partitella di calcetto coi colleghi. Se vogliamo veramente la meritocrazia, dobbiamo quindi inserire una massiccia dose di competizione tra le istituzioni e le organizzazioni che occupano i nostri giovani se vogliamo che li selezionino bene. Nel mondo privato sono tante le aziende e le professioni ancora oggi protette dalla concorrenza (quanti tassisti sono figli di tassisti che hanno combattuto Uber?). E anche nelle università la competizione è possibile e da noi è carente. Nel mondo segue due modelli diversi.Le università private come quelle statunitensi devono competere per donazioni e hanno rette elevate. Le migliori università europee competono invece per i finanziamenti pubblici sulla base di rigorose valutazioni. In Italia abbiamo poche università in grado di attirare finanziamenti privati e certamente non vogliamo le rette a livello delle università Usa. Quindi la soluzione può essere un sistema che combina un po’ i due modelli: autonomia per chi se la merita e può reggersi di più sulle proprie gambe e un controllo pubblico rigoroso per le altre. Se commettono gravi scorrettezze, come nel caso della università in cui è avvenuto lo «scambio di cattedre», il responsabile deve essere il Ministro o almeno il consiglio di amministrazione da lui nominato, non come avviene oggi che nessuna autorità politica o di governo universitario ne risponde e il rettore fa ciò che vuole. Le leggi «blocca figli» in generale servono a poco. La vera meritocrazia non la fanno le leggi ma la concorrenza .

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